Il costo umano dell’immobilismo
L’alto numero dei suicidi e i numerosi episodi di violenza nelle carceri italiane ripropongono quotidianamente il tema di una situazione di tensione e di degrado diffusa negli istituti di pena che non può essere accettata e che deve spingere la politica, e prima di tutto il Governo, a mettere in campo misure e interventi efficaci per migliorare le condizioni detentive.
In questi mesi ci siamo, invece, trovati di fronte ad un evidente immobilismo del Ministro Nordio, che non può essere compensato dalle continue dichiarazioni piene di buone intenzioni o dalle proposte irrealizzabili, come quella dell’utilizzo delle ex caserme per creare nuove strutture detentive.
Tutte cose che dimostrano la confusione che c’è nel Governo su questo tema. Anche la pur condivisibile proposta di aumentare il numero delle telefonate concesso ai detenuti per garantire loro il supporto delle famiglie, da sola appare insufficiente.
Servono scelte coerenti con una visione che non può non partire dal dettato costituzionale e dalla funzione rieducativa della pena.
Serve mettere al centro questo obiettivo quando si ragiona su come intervenire per ridurre la pressione sulle carceri, che spesso devono ospitare più detenuti di quelli che la capienza consentirebbe, su come rendere la detenzione meno degradante, su come valorizzare il lavoro di chi opera nelle carceri ed è costretto a fare i conti con personale insufficiente, costretto a operare in una perenne emergenza.
Nella scorsa Legislatura, anche per la necessità di fronteggiare il Covid, sono state introdotte misure che hanno funzionato ma che questo Governo non ha voluto rendere strutturali: dalla possibilità dei domiciliari con i sistemi di controllo elettronico per chi aveva ancora da scontare 18 mesi, all’opportunità per chi era in semilibertà di non dover passare la notte in carcere, fino all’ampliamento della possibilità di comunicare con i familiari anche utilizzando la rete.
Nello stesso tempo, la Ministra Cartabia, nella riforma del processo penale, ha insistito sulla necessità di un maggiore utilizzo delle pene alternative, della messa in prova, introducendo anche, guardando alle vittime, il tema della giustizia riparativa.
Si sono introdotti interventi certamente insufficienti, ma chiari sulla direzione da assumere: quella del carcere come estrema ratio e non come l’unico luogo in cui scontare una pena che deve comunque avere la funzione che la Carta ha definito.
Serve ripartire da ciò che è stato già sperimentato per riprendere un percorso fatto di cose concrete che non si limitano all’emergenza ma descrivono una politica e una idea.
Una volta scelta la strada della Costituzione è chiaro che anche temi come la formazione e il lavoro diventano centrali, priorità imprescindibili dentro e fuori dal carcere per chi sconta una pena.
L’altro dramma su cui non è più possibile accettare i silenzi e l’immobilismo è la realtà raccontata dai tanti suicidi, di carceri in cui il disagio psichico non trova risposte e, anzi, viene aggravato.
L’insufficienza delle strutture destinate ad affrontare le patologie psichiatriche sta producendo, come testimoniano le cronache, effetti tragici fuori e dentro il carcere.
Serve investire sulle Rems e sull’organizzazione della sanità negli istituti di pena sapendo che non tutto si risolve ridicendo la popolazione carceraria né assistendo inermi di fronte al crescere del disagio e alle sue spesso drammatiche conseguenze.
Articolo pubblicato su Avvenire (PDF).